mercoledì 21 novembre 2012

Pensioni, una storia lunga più di un secolo


Dal principio di volontarietà all’obbligatorietà, dalla capitalizzazione pubblica ad un sistema totalmente contributivo. Sono solo alcuni dei passaggi che hanno segnato la storia delle pensioni in Italia. Un percorso ormai di più di 100 anni. Era, infatti, il luglio del 1898 quando un decreto ministeriale istituisce la Cassa nazionale di previdenza come organo di tutela per la vecchiaia e per l’invalidità. Inizialmente i lavoratori possono iscriversi volontariamente all’ente e in cambio ricevono una rendita vitalizia al compimento dell’età pensionabile oppure nel momento in cui viene certificata la propria inabilità al lavoro. Sono proprio i contributi degli iscritti a determinare in massima parte il finanziamento della Cassa. Da quell’estate di più di un secolo fa tante cose sono cambiate, tanti ministri e presidenti del Consiglio hanno lasciato il proprio nome in eredità a riforme che modificavano una delle materie sociali più importanti. Sino all’ultima, quella studiata nel dicembre 2011 dall’attuale ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Elsa Fornero. Rivedere come si è arrivati alla situazione attuale è un tuffo nella memoria e nella storia dell’Italia.

Il film della previdenza nel nostro Paese incomincia, in realtà, con un lungo flashback. Il  primo intervento dello Stato nell’ambito del welfare italiano risale al 1862 con la regolamentazione dell’attività degli istituiti di carità e beneficenza.
Nel 1881, poi, viene creata la Cassa delle pensioni civili e militari a carico dello Stato e, due anni dopo, la legge istituiva la Cassa Nazionale contro gli infortuni. Il terreno è ormai pronto alla nascita ufficiale della Cassa nazionale di previdenza. L’ente, per far quadrare i conti, passerà in fretta dal principio dell’iscrizione volontaria a quello dell’obbligatorietà. A farne le spese sono prima i dipendenti pubblici e i ferrovieri, poi dal 1919 tutte le categorie lavorative.

L’Italia scelse da subito un sistema pensionistico a capitalizzazione pubblica. Il modello era quello tedesco, basato sull’assicurazione per i soli lavoratori che la finanziavano con i propri contributi e quelli dei datori di lavoro. Modesto, invece, il contributo dello Stato, al contrario di quanto avveniva in Gran Bretagna dove il governo garantiva una pensione minima a tutti i cittadini. Il sistema italo-tedesco venne conservato, senza variazioni sostanziali, per tutto il periodo fascista. Anche dopo che nel 1933 la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali prende il nome definitivo di Istituto nazionale per la previdenza sociale (Inps). I capitali accantonati grazie ai contributi dei lavoratori venivano investiti in operazioni finanziarie. I guadagni derivanti dal rendimento degli investimenti effettuati si sommavano o si sottraevano alle riserve. Dal capitale così formato, escluse le spese correnti di gestione, veniva di volta in volta prelevata la quota necessaria ad erogare le prestazioni pensionistiche.

La seconda guerra mondiale e la conseguente inflazione galoppante hanno diminuito notevolmente l’importo reale degli assegni previdenziali. Così in Italia, terminato il conflitto bellico e fatte ripartire le attività economiche, si pensò di modificare anche questa materia sociale. Nel 1952 fu introdotto il sistema previdenziale cosiddetto a ripartizione contributiva. Il concetto base prelevare i contributi dai lavoratori attivi e contemporaneamente con essi, in diretto rapporto con quanto versato, pagare le prestazioni ai pensionati. A partire dalla fine del decennio di boom economico e di aumento della spesa pubblica si stabiliscono tutele per tutti i lavoratori, siano essi dipendenti o autonomi, coltivatori diretti, artigiani e commercianti. L’ingresso di queste categorie nel sistema di tutela pubblica ha consentito nella maggior parte dei casi un accesso ai benefici della spesa sociale senza un adeguato corrispettivo contributivo.

Altro spartiacque nella storia pensionistica italiana è la riforma Brodolini del 1969. Conseguenza delle conquiste e del rinnovato clima della lotta di classe dell’anno precedente, il nuovo sistema introduceva pensioni a ripartizione retributiva. In pratica il calcolo dell’assegno mensile avveniva non in base all’ammontare dei contributi effettivamente versati, ma alla retribuzione media di un preciso periodo della vita lavorativa moltiplicata per un’aliquota relativa agli anni di versamento contributivo. Le condizioni erano davvero molto favorevoli per i pensionati. Basti pensare che il periodo di riferimento per calcolare l’importo erano gli ultimi tre anni per i dipendenti privati, l’ultimo anno per i dipendenti degli enti locali e l’ultimo mese per i dipendenti pubblici. In questo modo con 40 anni di lavoro si percepiva circa l’80 per cento della retribuzione media del periodo di riferimento. Di lì a poco fu stabilito anche l’aggancio delle pensioni alla dinamica salariale. 

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