martedì 12 marzo 2013

CASSAZIONE RICONOSCE LEGITTIMO REQUISITO PENSIONISTICO PER LICENZIAMENTO COLLETTIVO PERSONALE

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Autore: francescocolaci
  

 SI RICHIAMA L’ATTENZIONE SULLA SOTTOSTANTE SENTENZA 01 MARZO 2013, N. 5143 CON CUI LA CORTE DI CASAZIONE IN MERITO AD UNA  PROCEDURA DI RIDUZIONE COLLETTIVA  DEL PERSONALE E MESSA IN MOBILITA ATTIVATA DA POSTE ITALIANE  HA RICONOSCIUTO LEGITTIMO  IL CRITERIO ,CONCORDATO CON LE OO.SS. ,DEL    POSSESSO DEI REQUISITI PENSIONISTICI DA PARTE DEL PERSONALE PER INDIVIDUARE LE UNITA DA COLLOCARE IN MOBILITA’

Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata il 6 marzo 2007, accogliendo l’impugnazione proposta da V.A. avverso la decisione del Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro del 6.2.2003, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato all’appellante in data 18.11.2001 da Poste Italiane spa a seguito di una procedura di riduzione del personale ai sensi della L. n. 223 del 1991 condannando la società a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro nonché al risarcimento del danno nella misura pari alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento fino alla effettiva reintegra, oltre gli accessori di legge.
Ad avviso della Corte territoriale il criterio convenzionalmente adottato dalle parti collettive di consentire il licenziamento di coloro che erano in possesso dei requisiti per il diritto alla pensione di anzianità o di vecchiaia presupponeva la individuazione di lavoratori in esubero in relazione alle esigenze tecniche organizzative aziendali non potendo ritenersi legittimi i licenziamenti di quei dipendenti che, seppur in possesso del predetto requisito, tuttavia risultavano estranei alle posizioni lavorative eccedenti, come accaduto nel caso in esame.
Per la cassazione dì tale sentenza propone ricorso le Poste Italiane spa affidato ad un unico motivo.
Resiste con controricorso V.A. che ha anche presentato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con l’unico articolato motivo di ricorso Poste Italiane s.p.a denuncia il vizio di violazione e falsa applicazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, nonché insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia con riguardo alla determinazione dell’ambito di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità e alla individuazione dei settori aziendali interessati dalla procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4.
La ricorrente contesta il ragionamento del giudice d’appello secondo il quale il requisito della maturazione del diritto alla pensione, prescelto dalle parti sociali nell’accordo dell’ottobre del 2001, non può prescindere dall’esistenza di posti di lavoro in esubero. Secondo la tesi della Corte d’appello di Roma l’individuazione dei lavoratori da porre in mobilità dovrebbe, quindi, avvenire in modo che essi siano individuati nell’ambito dei settori o dei reparti in relazione ai quali siano prospettate e riscontrate le situazioni di eccedenza, così da esprimere un nesso eziologico tra le esigenze tecnico – produttive e la scelta del personale, mentre attraverso il criterio concordato le parti avrebbero solo inteso limitare la scelta ad una categoria di personale eccedentario, indipendentemente dalla preventiva definizione della collocazione aziendale degli esuberi.
Nel censurare tale ragionamento la ricorrente evidenzia che, in spregio alla “ratio” della L. n. 223 del 1991, il giudice d’appello ha in realtà fornito una interpretazione che contempla una compressione della possibilità per le parti sociali di raggiungere un accordo e che finisce per precludere alle stesse, coinvolte nella procedura di cui all’art. 4 della predetta legge, la disamina della situazione economica ed organizzativa dell’intero complesso aziendale o, almeno, l’utilità’ di quella disamina, dal momento che, nell’interpretazione fatta propria dal medesimo giudicante, l’accordo non potrebbe mai riguardare settori non dichiarati eccedentari dal datore di lavoro. In definitiva, secondo la ricorrente, la tesi adottata dalla Corte territoriale si pone in violazione, oltre che della L. n. 223 del 1991, art. 5 anche dell’art. 39 Cost. comma 1 che contiene una garanzia della libertà di contrattazione collettiva, tanto più rilevante ove, come nella specie, dello stesso legislatore a delegare all’autonomia collettiva un intervento regolamentare. Basti pensare, aggiunge la difesa delle Poste, che ove il criterio di scelta della prossimità alla pensione dovesse essere applicato solo su alcuni settori aziendali e non su tutta l’azienda, come espressamente chiarito negli accordi sindacali, il numero dei lavoratori da porre in esodo sarebbe considerevolmente inferiore a quello necessitato e preventivato.
Si assume, altresì, che l’impugnata decisione è errata in quanto valorizza eccessivamente il sindacato giurisdizionale sul profilo causale del licenziamento collettivo, senza considerare che, nella giurisprudenza e nella dottrina dominante, tale sindacato sfuma nella verifica del rispetto della procedura e dei criteri di scelta convenuti. A riprova di tale assunto la stessa difesa si riporta alla lettera di apertura della procedura L. n. 223 del 1991, art. 4 del 25 giugno 2001, che prevedeva esplicitamente che l’esigenza di riduzione del personale si sarebbe riverberata in tutto il contesto nazionale ed avrebbe riguardato tutto il personale, poiché trovava fondamento nell’esigenza indifferibile di ricondurre il costo del personale nelle sue varie componenti, attraverso sia la ridistribuzione territoriale delle risorse in relazione alle esigenze organizzative, sia, comunque, attraverso la riduzione del numero di addetti, entro livelli più coerenti con la propria situazione economica e gestionale. E rispetto a quest’esigenza, conclude la ricorrente, che doveva essere valutato l’ambito di operatività dei criteri di scelta e la sussistenza del nesso causale.
Viene, quindi, posto il seguente quesito di diritto:”Avuto riguardo al fatto che nell’accordo di definizione della procedura ex L. n. 223 del 1991 le parti abbiano convenuto la licenziabilità di tutto il personale in possesso dei requisiti pensionistici, è necessario che l’applicazione del predetto in fase di attuazione dei recessi tenga comunque conto di un necessario nesso eziologico tra le esigenze tecnico-produttive e la scelta del personale e che quindi i soggetti da porre in mobilità siano individuati nell’ambito di settori o reparti in relazione ai quali siano state prospettate e riscontrate situazioni di eccedenza o è possibile l’applicazione del criterio a tutto l’organico aziendale, ovunque esso risulti applicato?”
Preliminarmente, va rilevato che il motivo è ammissibile, contrariamente a quanto eccepito dal resistente, in quanto i profili relativi alla denunciata violazione di norme di diritto sono stati correttamente delineati e risultano sintetizzati anche nel quesito diritto richiesto dall’art. 366 bis c.p.c. “ratione temporis” ancora applicabile al ricorso in esame. Quanto al lamentato vizio di motivazione si osserva che avendo un diverso e specifico oggetto per investire il solo iter argomentativo della impugnata decisione, richiede una illustrazione, che sia libera da qualsiasi rigidità formale, ma che nello stesso tempo si concretizzi in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assuma omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza di motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione (Cass. n. 4556 del 25/02/2009; Cass., Sez. Un., 1 ottobre 2007 n. 20603; Cass. 7 aprile 2008 n. 8897; Cass. 20 febbraio 2008 n. 4309). Orbene, nel caso in esame risulta bene individuato il fatto controverso rispetto al quale la motivazione di assume essere insufficiente.
Nel merito il motivo è fondato.
Invero, come questa Corte ha già avuto modo di statuire (Cass. n. 6284 del 18.3.2011; Cass. n. 4653 del 26/2/2009) “in tema di verifica del rispetto delle regole procedurali per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale, cosicché, ove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra l’indicazione degli uffici o reparti con eccedenza, e ciò tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura che, nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio della scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione”.
Tra l’altro questi precedenti ribadiscono un orientamento costante di questa Corte in tema di controllo giudiziale da esercitarsi sulla regolarità procedimentale del licenziamento collettivo e sul rispetto dei principi di non discriminazione, di razionalità e di obiettività dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare nella determinazione negoziale degli stessi criteri. Si è, infatti, precisato (Cass. sez. lav. n. 21541 del 6/10/2006) che “in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la L. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato “ex post” nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo) ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva. (Nella specie, la S.C., sulla scorta dell’enunciato complessivo principio, ha confermato la sentenza impugnata con la cui congrua e logica motivazione era stata adeguatamente rilevata la sussistenza delle condizioni procedimentali per far luogo alla procedura di licenziamento collettivo in dipendenza dell’emergenza delle esigenze oggettive, richieste dalla legge, di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, il cui accertamento di fatto sfuggiva alle censure del ricorrente fondate essenzialmente sul rilievo della divergenza tra la situazione rilevata con la comunicazione iniziale di apertura della procedura di mobilità e quella di fatto sussistente al momento conclusivo, in cui furono adottati i provvedimenti di recesso)”. Si è, inoltre, chiarito che “in materia di licenziamenti collettivi – come sottolineato nella sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 1994 – la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (che si traduce in accordo sindacale che ben può essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza la necessità dell’approvazione dell’unanimità), poiché adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge, deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dalla L. n. 300 del 1970, art. 15 ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell’obiettività e della generalità oltre a dover essere coerenti con il fine dell’istituto della mobilità dei lavoratori. Deve, conseguentemente, considerarsi razionalmente adeguato il criterio della prossimità al trattamento pensionistico con fruizione di “mobilità lunga”, oltretutto menzionato come esempio nella suddetta sentenza costituzionale, stante la giustificazione costituita dal minore impatto sociale dell’operazione e il potere dell’accordo di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, di sostituire i criteri legali e di adottare anche un unico criterio di scelta, a condizione che il criterio adottato escluda qualsiasi discrezionalità del datore di lavoro” (Cass. sez. lav. n. 9866 del 24/4/2007). Si è, ulteriormente, ribadito (Cass. sez, n. 21541 del 6/10/06 conforme a Cass. sez. n. 20455 del 21/9/06) che “in materia di collocamento in mobilità e di licenziamenti collettivi, il criterio di scelta adottato nell’accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali per l’individuazione dei destinatari del licenziamento può anche essere unico e consistere nella prossimità” a pensionamento, purché esso permetta di formare una graduatoria rigida e possa essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro”. D’altronde, nella fattispecie in esame, non può non rilevarsi l’assenza di qualsiasi elemento suscettibile di far paventare l’esistenza di un intento discriminatorio da parte della società datrice di lavoro, essendo innegabile l’equità di un sistema di riduzione del personale incentrato sull’esigenza di una più efficiente riorganizzazione dell’impresa non disgiunta da quella di addossare la ricaduta degli effetti negativi della riduzione stessa sui soggetti che, per essere prossimi a pensione, hanno la capacità economica di ammortizzare meglio detti effetti, ed essendo certo che la società aveva prospettato che l’individuazione dei lavoratori da verificare doveva avvenire in relazione alle esigenze tecnico – produttive dell’intero complesso aziendale. Alla luce di tali precisi e costanti orientamenti della Corte deve, quindi, osservarsi che il controllo giurisdizionale esercitato da giudice d’appello è andato oltre i limiti delineati dalla L. n. 223 del 1991, in quanto il medesimo non ha limitato la propria indagine alla correttezza procedurale dell’operazione, ma si è spinto a punto di esigere, contrariamente al contenuto degli accordi sindacali, che non aveva alcuna rilevanza il fatto che in tali accordi fosse stato previsto il licenziamento di tutto il personale che, alle date fissate nel detto accordo, si fosse trovato nel possesso dei requisiti per il diritto alla pensione di anzianità o di vecchiaia (come per il V.A.), in quanto tale prescrizione riguardava l’applicazione del criterio concordato e non l’individuazione dei settori eccedenti in cui il criterio stesso avrebbe dovuto operare.
In particolare tale ragionamento, che finisce per parcellizzare il concetto stesso dell’intero ambito aziendale, è contraddetto proprio da un precedente di questa Corte che ha avuto modo di affermare che “in tema di collocamento in mobilità, l’individuazione dei lavoratori da verificare deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico – produttive dell’intero complesso aziendale, e ciò anche in base alla definizione di “personale abitualmente impiegato” – aggiunta, significativamente, al testo originario del D.Lgs. n. 151 del 1997, art. 1 (in attuazione della direttiva del Consiglio CEE n. 175/129 del 17 febbraio 1975, aggiornata dalla successiva direttiva n. 92/56 del 24 giugno 1992), secondo cui il riferimento ai profili professionali da prendere in considerazione sono anche quelli propri di tutti i dipendenti potenzialmente interessati (in negativo) alla mobilità, tra i quali potrà, all’esito della procedura, operarsi la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità L. n. 223 del 1991, ex art. 5″ (Cass. sez. lav. n. 12719 del 29/5/2006).
Alla luce di quanto esposto il ricorso va accolto con conseguente cassazione della sentenza impugnata.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, questa Corte può decidere nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, per cui la domanda del lavoratore va rigettata.
Motivi di equità, dovuti sia alla natura della lite che alla qualità di parte più debole del rapporto rivestita dall’intimato, inducono la Corte a ritenere interamente compensate tra le parti le spese dell’intero processo.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda dell’originario ricorrente, compensa tra le parti le spese dell’intero processo.

 

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