martedì 14 agosto 2012

Maggiorazione pensione di inabilità ed età pensionabile


Fonte:http://previdenza.wordpress.com/2012/08/11/maggiorazione-pensione-di-inabilita-ed-eta-pensionabile/

Maggiorazione pensione di inabilità ed età pensionabile

La quantificazione dell’importo della pensione di inabilità, corrisposta secondo quanto disposto dall’articolo 2 della legge 12.06.1984 n. 222 , merita oggi un approfondimento perché – essendo mutato il riferimento all’età pensionabile, per effetto della successiva legislazione, senza che siano state considerate le implicazioni su queste prestazioni di invalidità – la sua applicazione appare in contrasto con i principi sui quali la pensione di inabilità si fonda.
Per comprendere questa affermazione dobbiamo ripercorrere parte della storia previdenziale degli anni dal 1984 ad oggi.
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Articolo 2 legge 12.06.1984 n. 222 – istituzione pensione di inabilità
L’importo della pensione di inabilità, vedi i precedenti articoli sull’argomento ed in particolare quello dal titolo “Pensioni di inabilità”, secondo quanto stabilito del 3° comma dell’articolo 2 della legge 12.06.1984 n. 222, si determina in questo modo:
“La pensione di inabilità, reversibile ai superstiti, è costituita dall’importo dell’assegno di invalidità, (…), e da una maggiorazione determinata in base ai seguenti criteri:
a) per l’iscritto nell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, la maggiorazione è pari alla differenza tra l’assegno di invalidità e quello che gli sarebbe spettato sulla base della retribuzione pensionabile, considerata per il calcolo dell’assegno medesimo con una anzianità contributiva aumentata di un periodo pari a quello compreso tra la data di decorrenza della pensionabilità e la data di compimento dell’età pensionabile. In ogni caso, non potrà essere computata una anzianità contributiva superiore a 40 anni;
b) per l’iscritto nelle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, la misura della maggiorazione è costituita dalla differenza tra l’assegno di invalidità e quello che gli sarebbe spettato al compimento dell’età pensionabile, considerando il periodo compreso tra la data di decorrenza della pensione di inabilità e la data di compimento di detta età coperto da contribuzione di importo corrispondente a quello stabilito nell’anno di decorrenza della pensione per i lavoratori autonomi della categoria alla quale l’assicurato ha contribuito, continuativamente o prevalentemente, nell’ultimo triennio di lavoro autonomo.”
Il nostro esame si limita al riferimento che la legge pone all’età pensionabile per specificare che l’età pensionabile (non rileva qui l’età pensionabile prevista per i pubblici dipendenti perché per loro questa prestazione è stata istituita del 1996) nel 1984 era così differenziata:
  • Lavoratori dipendenti: 55 anni donne, 60 anni uomini;
  • Lavoratori autonomi (coltivatori, artigiani e commercianti): 60 anni donne e 65 anni uomini.
L’obiettivo che il Legislatore si è prefisso è palese: l’importo della pensione di inabilità deve essere tale da “compensare” parzialmente il lavoratore inabile degli anni che avrebbe potuto lavorare se non fosse divenuto inabile.
Un caso estremo, riguardante un uomo lavoratore dipendente di 25 anni di età, con 6 anni di contribuzione e riconosciuto inabile nel gennaio 1985 , può chiarire; gli sarebbe spettata la maggiorazione minore tra 40 – 6 = 34 (anzianità contributiva massima e anni di contribuzione) e 60 – 25 = 35 (età pensionabile ed età anagrafica); la maggiorazione sarebbe satata quindi pari a 34 anni.
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Articolo 3 legge 23.10.1992 n. 421 e articolo 1 decreto legislativo 30.12.1992 n. 503 – prima grande riforma previdenziale
Nei drammatici mesi di fine 1992 non solo fu salvaguardato l’obiettivo che la legge 222/1984 aveva fissato, ma il Legislatore si preoccupò anche di adattare alla nuova legislazione, che elevava progressivamente l’età pensionabile dei lavoratori dipendenti a quella dei lavoratori autonomi (60 anni donne e 65 uomini), a quegli stessi obiettivi; infatti l’articolo 3 della legge 23.10.1992 n. 421 dispose la :” (…) facoltà di deroga per gli inabili in misura non inferiore all’80%, (…)” e l’articolo 1 del decreto legislativo 30.12.1992/503 (età per il pensionamento di vecchiaia) confermava che“L’elevazione dei limiti di età di cui al comma 1 non si applica agli inabili in misura non inferiore all’80%.”
Nella sostanza, poiché per il diritto alla pensione di inabilità è richiesta una percentuale di inabilità del 100%, il mantenimento del riferimento all’età pensionabile vigente nel 1984 nella quantificazione della maggiorazione è in linea con le finalità della maggiorazione stessa. Si osservi che l’aumento dell’età pensionabile riguarda solo i dipendenti così come la deroga prevista per gli invalidi in misura non inferiore all’80%, come conferma anche l’Istituto previdenziale: “Per coloro che si trovano nella predetta condizione i limiti di età per il diritto alla pensione di vecchiaia nell’assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti restano pertanto confermati in 60 anni per gli uomini e 55 anni per le donne.” INPS Circolare 23.02.1993 n. 50.
Nell’articolo di legge non si trova nessuna espressa esclusività in favore dei lavoratori dipendenti privati né una qualche esclusione riguardante i lavoratori della pubblica amministrazione, ma non sembra neppure che il Legislatore abbia intesto istituire un nuovo trattamento di invalidità oltre a quelli specifici già in vigore per questi assicurati (pensione privilegiata per causa di servizio, inidoneità al servizio, inabilità a proficuo lavoro e inabilità alle mansioni del proprio profilo professionale).
Auspicando una maggior omogeneizzazione anche in tema di tutela delle invalidità dobbiamo però ritenere inapplicabile la deroga in favore degli assicurati della pubblica amministrazione.
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Articoli 1 e 2 legge 08.08.1995 n. 335 – seconda grande riforma previdenziale – istituzione sistema contributivo
La legge 335/95, per l’argomento in esame, è importante perché istituisce la pensione di inabilità anche per i pubblici dipendenti, ma soprattutto perché istituisce il sistema contributivo.
Il comma 15 dell’articolo 1 dispone che: “Per il calcolo delle pensioni di inabilità (…) le maggiorazioni di cui all’art. 2 della L. 12.6.84/222, si computano, secondo il sistema contributivo, per l’attribuzione di una anzianità contributiva complessiva non superiore a 40 anni, aggiungendo al montante individuale, posseduto all’atto dell’ammissione al trattamento, un’ulteriore quota di contribuzione riferita al periodo mancante al raggiungimento del sessantesimo anno di età dell’interessato (…).”
La novità importante è nel fatto che, per gli assicurati con anzianità contributiva al 31.12.1995 inferiore ai 18 anni, il riferimento all’età pensionabile utile al calcolo della maggiorazione di inabilità è fissato in ogni caso a 60 anni.
Perché il Legislatore ha fissato a 60 anni l’età pensionabile ai fini della maggiorazione di inabilità? La legge al comma 20 dell’articolo 1 stabilisce che il diritto alla pensione di vecchiaia “si consegue al compimento del 57° anno di età, a condizione che risultino versati e accreditati in favore dell’assicurato almeno 5 anni di contribuzione effettiva e che l’importo della pensione risulti essere non inferiore a 1,2 volte l’importo dell’assegno sociale di cui all’art.3, commi 6 e 7. Si prescinde dal predetto requisito anagrafico al raggiungimento dell’anzianità contributiva non inferiore a 40 anni, (…) nonché dal predetto importo dal 65° anno di età.” La ragione è quindi che l’età ordinaria di conseguimento della pensione di vecchiaia (che allora comprendeva anche quella di anzianità) fu fissato intorno ai 60 anni. Rimane così ancora confermato l’obiettivo di compensazione a fondamento della maggiorazione di inabilità.
La legislazione successiva ha però modificato l’età pensionabile anche per chi maturava il diritto a pensione secondo le norme del sistema contributivo in particolare l’articolo 1 della legge 23.08.2004 n. 243 stabilisce che con effetto dal 1° gennaio 2008: ”per i lavoratori la cui pensione è liquidata esclusivamente con il sistema contributivo, il requisito anagrafico di cui all’articolo 1, comma 20, primo periodo, della legge 8 agosto 1995, n. 335 è elevato a 60 anni per le donne e a 65 per gli uomini. (…)”.
Dal 2008 si è creata una disparità nella quantificazione della maggiorazione nel caso di inabile (uomo) con diritto in una gestione autonoma: gli uomini lavoratori dipendenti potevano comunque utilizzare la deroga prevista dalla legge 421/92 e per le donne iscritte in una gestione autonoma il limite di età veniva confermato pari a quello delle pensioni liquidate nel sistema retributivo.
Per gli uomini lavoratori autonomi invece, essendo il limite di età fissato ai 65 anni, non potendo beneficiare al pari dei dipendenti della deroga di cui alla legge 421/92, avevano uno scarto di 5 anni tra l’età pensionabile prevista per la quantificazione della maggiorazione di inabilità e l’effettiva età pensionabile. Venne così intaccato per la prima volta l’obiettivo fissato nell’istituzione della pensione di inabilità.
Non mi risulta che la questione sia mai stata sollevata forse perché non si trattava di numeri significativi, ma è importante perché modifica il rapporto stretto, fino a quel momento esistente, tra età pensionabile ed età pensionabile ai fini della maggiorazione di inabilità. Per questo dobbiamo chiederci:
  1. se effettivamente la legge 421/92 non prevede la deroga che consentiva l’accesso alla pensione di vecchiaia con le precedenti norme, anche in favore dei lavoratori autonomi;
  2. se la circostanza presenti aspetti di discriminazione.
Rileggendo l’articolo di legge non si trova nessuna espressa esclusività in favore dei lavoratori dipendenti né una qualche esclusione riguardante i lavoratori autonomi (testo del decreto legislativo 30.12.1992/503L’elevazione dei limiti di età non si applica agli inabili in misura non inferiore all’80%.); l’esclusione fu quindi conseguente al fatto che per i lavoratori autonomi nulla era diverso rispetto alla situazione vigente nel 1984.
Non escludo che l’interpretazione dell’Istituto sia rimasta ferma a quella iniziale solo perché nessuno ha sollevato il problema; in ogni caso a me sembra irrazionale e contrario all’armonizzazione delle tutele che una disposizione di legge solo perché era ininfluente per una categoria di assicurati, al momento della sua entrata in vigore, per ciò stesso sia dichiarata inapplicabile nel momento successivo nel quale invece diventa rilevante.
Che poi si tratti di discriminazione tra assicurati e tra uomo e donna è evidente e, per conseguenza, illegittimo.
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Articolo 24 legge 22.12.2011 n. 214 – terza grande riforma previdenziale
A regime, cioè  dal 1° gennaio 2024,  la recente legge prevede che il requisito anagrafico per l’accesso alla pensione sia fissato in 67 anni e 5 mesi per tutti i lavoratori e le lavoratrici, sia per i dipendenti che per gli autonomi.
Si aggiunga che la legge – secondo l’interpretazione oggi conosciuta – non ammette più deroghe ed in particolare non è più possibile, in presenza di una invalidità superiore all’80%, chiedere di anticipare la data della pensione di vecchiaia, neppure per i lavoratori dipendenti.
Ne deriva che già oggi la frattura che si è creata nel 2008 tra le due età pensionabili riguarda tutti gli assicurati ed è progressivamente di entità maggiore.
La legge risolve alla radice ogni possibile discriminazione, ma è indubbio che riduce la compensazione che il Legislatore del 1984 aveva previsto a tutela degli inabili.
Nei fatti la legge istitutiva del sistema contributivo, ma molto più chiaramente lo ha fatto la legge 214 del 2011, ha anche vanificato qualsiasi riferimento alla anzianità contributiva massima: non esiste più il limite dei 40 anni; già oggi l’anzianità assicurativa massima è fissata in 41 anni per le donne e 42 per gli uomini e a regime essa è prevista rispettivamente di 42 anni e 5 mesi e 43 anni e 5 mesi.
Al caso già precedentemente esaminato sarà riconosciuta comunque un maggiorazione pari a 34 anni, quando in realtà, considerati i nuovi requisiti la maggiorazione di anzianità dovrebbe essere pari a 35 anni e 5 mesi: avrebbe infatti diritto alla maggiorazione minore tra 43 anni e 5 mesi – 6 anni = 37 anni e 5 mesi (anzianità contributiva massima e anni di contribuzione) e 67 anni e 5 mesi – 25 = 42 anni e 5 mesi (età pensionabile ed età anagrafica). La differenza di 3 anni e 5 mesi costituisce l’entità dello scostamento tra le due età pensionabili.
Se si prova a quantificare l’entità della maggiorazione nelle diverse combinazioni di età e anzianità contributiva risulta evidente che è quasi sempre quest’ultima a determinare l’entità della maggiorazione; questo perché normalmente a maggiore età corrisponde anche maggiore anzianità contributiva. L’elevazione dell’età pensionabile senza una corrispondente elevazione dell’età pensionabile di inabilità normalmente non crea gravi conseguenze; nella media dei casi è più rilevante la elevazione dell’anzianità contributiva massima senza che corrispondentemente sia adeguata quella prevista per la quantificazione della maggiorazione di inabilità.
In valore economico, ipotizzando una retribuzione media mensile lorda pari a 2.300 €, l’importo mensile della maggiorazione sarà inferiore di 100 € circa a quella che spetterebbe se venissero applicati i nuovi valori di riferimento: non si tratta affatto di un importo trascurabile anche considerando che, nel sistema contributivo non esiste la tutela del trattamento minimo.
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Conclusioni
Per ragioni di principio e di rispetto degli obiettivi fissati dalla legge istitutiva della pensione di inabilità, obiettivi che tutta la legislazione successiva non ha mai intaccato direttamente, è importane che siano previste norme di raccordo tra le nuove disposizioni e quelle relative alla tutela della inabilità.
Sarebbe sufficiente una interpretazione della legge che confermasse la deroga prevista dalla legge 421/92 e che ne affermasse la validità anche per i lavoratori autonomi.
Nel mio articolo “Età pensionabile e inabilità presunta” affermavo che “La determinazione dell’età pensionabile, in quanto fase della vita umana, deve avere una quantificazione univoca”; purtroppo non si è intervenuti nel senso auspicato e anzi, la recente legislazione ha scelto un percorso diverso, con le conseguenze che chiunque può capire.

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